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Sfogo social contro Stato e governo: condanna per il militare

Le parole utilizzate, anziché contenere una critica, anche aspra, veicolano un disprezzo radicale per il bersaglio scelto, e non una presa di distanza fornita di motivazioni politiche

Sfogo social contro Stato e governo: condanna per il militare

Dodici mesi di reclusione militare per il sergente che sfoga su ‘Facebook’, con due diversi ‘post’, la propria rabbia verso lo Stato, equiparato alla mafia, e verso il governo. Sacrosanto, sanciscono i giudici, catalogare gli episodi come esemplificazione del reato di vilipendio nei confronti della Repubblica, delle istituzioni e delle forze armate.
Questa la decisione presa dai giudici (sentenza numero 29723 del 26 agosto 2025 della Cassazione) a chiusura di un contenzioso originato da due scritti, il primo risalente all’ottobre del 2016 e il secondo al luglio del 2026, pubblicati on line – sul social network ‘Facebook’ – da un sergente e contenenti parole non proprio di apprezzamento verso lo Stato e verso il governo.
Per i giudici militari di primo e di secondo grado non ci sono dubbi: è sacrosanto parlare di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate, con conseguente condanna del sergente a dodici mesi di reclusione militare, a fronte di frasi ingiuriose, aggravate dal grado dell’autore, pubblicate sul suo profilo personale su ‘Facebook’ e rivolte all’indirizzo dello Stato e del governo.
Rilevante, ovviamente, anche l’attribuzione al militare, da parte del legislatore, di un particolare dovere di fedeltà alla Repubblica e alle sue istituzioni, a cui si collega il dovere di non offenderle, neppure se non si condivida l’orientamento politico dei governanti o uno specifico provvedimento. Non a caso, la violazione del dovere di fedeltà proprio del militare rende giustificato che l’autorità giudiziaria possa procedere per il reato di vilipendio senza prima dover attendere la valutazione politica, da parte di un’autorità diversa, della sua condotta.
Tornando ai dettagli della vicenda, impossibile, secondo i giudici, catalogare il contenuto dei due ‘post’ su ‘Facebook’ come una mera critica, espressa proprio in attuazione del dovere di fedeltà ma senza alcun intento di offendere o disprezzare le istituzioni statali, poiché le frasi condivise on line veicolano un disprezzo radicale e non una mera critica formulata per ragioni di adesione ad un diverso schieramento politico, e contengono offese gratuite verso il governo e lo Stato, addirittura equiparando quest’;ultimo alla mafia, sottolineano i giudici.
Ampliando l’orizzonte, infine, per i giudici l’uso di termini gravemente offensivi non può essere ritenuto legittimo o comunque consentito, neppure tenendo conto del linguaggio più facilmente impiegato sui social network. Illogico, quindi, catalogare la condotta del militare come esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, anche sotto la forma dell’eccesso colposo, risultando evidente al sergente la natura gratuitamente offensiva e spregiativa delle espressioni utilizzate nei due ‘post’ su ‘Facebook’.
Inutili le molteplici obiezioni sollevate in Cassazione dal sergente. Per i magistrati di terzo grado, difatti, è sacrosanta la condanna per vilipendio nei confronti della Repubblica, e legittima la sanzione, ossia dodici mesi di reclusione militare. Ciò anche perché, a fronte del reato di vilipendio, il diverso trattamento applicabile ai militari, rispetto a quello previsto dal Codice Penale per i cittadini comuni, è una ragionevole scelta del legislatore. Evidente, in questa ottica, la diversità tra i due reati, sia per la qualità personale dell’autore, che, nel caso del ‘Codice penale militare di pace’, deve essere un appartenente alle forze armate, sia per il diverso trattamento sanzionatorio previsto. In sostanza, il legislatore ha ritenuto particolarmente grave la condotta di vilipendio tenuta dal militare, rispetto alla modesta gravità attribuita al medesimo comportamento tenuto dal cittadino comune. E tale diverso trattamento non appare irragionevole: le affermazioni di disprezzo pronunciate contro lo Stato da chi è preposto alla sua tutela inducono a mettere in dubbio la lealtà e la fedeltà di tale soggetto, e quindi anche le sue capacità e volontà di difendere le istituzioni repubblicane in caso di loro messa in pericolo, mentre tale fedeltà deve essere prestata alle istituzioni in modo costante, chiunque le rappresenti e qualunque sia il suo orientamento politico. Inoltre, esse producono, in chi le ascolta, un maggiore impatto suggestivo, potendo spingere l’ascoltatore a togliere rispetto a dette istituzioni se anche chi è preposto, per sua scelta, alla loro difesa dimostra di “tenerle a vile” e di non nutrire fiducia in esse. Lampante, quindi, l’effettiva, maggiore gravità del reato di vilipendio compiuto da un militare.
Ciò detto, è palese, poi, secondo i magistrati di Cassazione, la gravità dei ‘post’ pubblicati su ‘Facebook’ dal sergente.
Per quanto concerne l’ipotesi, avanzata dalla difesa del militare, della catalogabilità delle frasi incriminate come legittimo esercizio del diritto di critica e di manifestazione del pensiero, tale diritto trova il suo limite, sottolineano i magistrati di Cassazione, nell’uso di espressioni gratuitamente volgari, offensive e lesive del prestigio del soggetto criticato e nell’uso di espressioni di disprezzo, quali, ad esempio, “Italia di merda” o “Stato di merda”.
Ragionando in questa ottica, è emersa la gratuità dei termini volgari e ingiuriosi utilizzati su ‘Facebook’ dal militare e non inseriti in un discorso strutturato di critica politica né riferiti a specifici comportamenti, bensì diretti a svilire e dileggiare, con epiteti volgari e non motivati, non solo il governo in carica ma lo Stato stesso e l’intera classe politica, che rappresenta il corpo elettorale.
Per essere chiari, le parole utilizzate dal sergente, anziché contenere una critica, anche aspra, veicolano un disprezzo radicale per il bersaglio scelto, e non una presa di distanza fornita di motivazioni politiche. E tale valutazione si fonda sulla volgarità stessa dei termini utilizzati, gratuitamente offensivi e tali da poter costituire, in astratto, l’elemento oggettivo del reato di vilipendio allo Stato o alle sue istituzioni. E il fatto che le espressioni utilizzate costituissero non esternazioni immotivate ma, come spiegato dal militare, manifestazioni di un orientamento politico contrario ai governanti in carica non le rende lecite, precisano i giudici. Impossibile, quindi, ridimensionare i fatti solo alla luce di una presunta finalità di critica non dell’istituzione statale, ma solo del modo in cui essa viene attuata.
In questa ottica, poi, viene precisato che il dolo richiesto dal ‘Codice penale militare di pace’ per il reato di vilipendio è un dolo generico, che consiste nella mera coscienza e volontà di indirizzare allo Stato e alle istituzioni repubblicane parole offensive e contenenti disprezzo, che possono oggettivamente costituire vilipendio, mentre la motivazione del gesto è irrilevante e non idonea ad escludere tali coscienza e volontà, per le quali sono sufficienti l’evidenza della natura offensiva e spregiativa delle espressioni usate, l’assenza di un articolato ragionamento politico, la volontà di esprimere il proprio dissenso con parole esprimenti disprezzo per le istituzioni nel loro complesso. Irrilevante, perciò, anche la tesi difensiva secondo cui all’epoca il sergente si è rivolto agli altri cittadini non quale militare ma quale privato cittadino: l’appartenenza alle forze armate è permanente, così come il particolare dovere di lealtà e fedeltà che si accompagna ad essa, sottolineano i magistrati di Cassazione.
Respinta, infine, anche l’obiezione difensiva mirata a sostenere la giustificabilità delle espressioni usate dal militare quali manifestazione del diritto di critica politica alla luce del clima, caratterizzato, all’epoca, da profonda sfiducia nella classe politica tradizionale, e del mezzo usato, essendo comune, sui social network, l’utilizzo di un linguaggio non formale ed anzi aggressivo e disinvolto.
Queste osservazioni non sono solide, secondo i giudici di terzo grado, poiché l’intenzione di esprimere solo una critica politica non è comunque idonea a giustificare l’uso di termini caratterizzati da gratuita oltraggiosità e portata denigratoria, e questa prospettiva non muta alla luce della evoluzione – o, meglio, involuzione – del linguaggio, che ha reso oggi accettabili espressioni colorite e scorrette, nonché dell’abituale utilizzo, sui social network, di termini crudi e diretti, poiché il contenuto dei due ‘post’ su ‘Facebook’ rimane inaccettabile, avendo una portata fortemente denigratoria e spregiativa, come certificato, su tutto, dalla equiparazione tra lo Stato e la mafia, equiparazione diretta palesemente a suscitare disprezzo verso le istituzioni.
In questo quadro, poi, assume peso specifico anche il termine “rivolta” utilizzato dal militare, termine considerato di rilievo dai giudici per il suo tratto offensivo e spregiativo, non come proposito o istigazione dei cittadini a passare a vie di fatto. Anche questa parola è stata valutata solo sotto tale profilo e ritenuta anch’essa manifestazione del disprezzo radicale verso lo Stato, disprezzo evidenziato in tutte le espressioni utilizzate dal militare, nonostante le dichiarazioni di fedeltà al Paese contenute in altre parti dei suoi commenti sul proprio profilo ‘Facebook’ e da lui rivendicate come prova di lealtà verso lo Stato.

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